IL FOCUS: LA POVERTÀ ESTREMA DEI “SENZA DIMORA” di Renato Frisanco

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IL FOCUS: LA POVERTÀ ESTREMA DEI “SENZA DIMORA” di Renato Frisanco

Nei principi guida delle Nazioni Unite su “povertà estrema e diritti umani[1], la povertà è definita come “una condizione umana caratterizzata dalla privazione continua o cronica di risorse, capacità, opzioni, sicurezza e potere necessari per poter godere di un tenore di vita adeguato e di altri diritti civili, culturali, economici, politici e sociali”.

In questo contesto la povertà estrema è “una combinazione di penuria di entrate, sviluppo umano insufficiente ed esclusione sociale”.

Essere in condizione di indigenza non è da considerare una colpa riprovevole, meritevole di biasimo o punizione (lettura che si palesa spesso e istintivamente nella nostra cultura e che si riflette sull’immagine di sé che hanno le persone povere) la povertà è il risultato inevitabile della disuguaglianza, frutto della distribuzione ineguale di risorse e opportunità, prodotta dal funzionamento di un certo modello sociale e di sviluppo.

Chi è povero non è in grado di adempiere al dovere costituzionale (art. 4, comma 2) di concorrere con le proprie capacità e scelte allo sviluppo della società, non è quindi un cittadino nella pienezza delle sue funzioni. La povertà, tanto più se estrema, è pertanto una condizione di grave emarginazione e rappresenta una perdita di risorse per l’intera società. Più aumentano i poveri più la società si impoverisce. L’entità di questo fenomeno dipende dalla misura con cui le istituzioni e le comunità di un determinato contesto riescono a fronteggiare e rimuovere le cause che lo determinano.

La povertà, in generale, non è poi riducibile alla sola valenza economica ma investe tutti gli aspetti dei “mondi vitali” delle persone, incidendo sulla loro possibilità di soddisfare bisogni essenziali quali la casa, la salute, l’istruzione, la socialità e la partecipazione, la sfera emotiva e affettiva. Non a caso nella sua definizione operativa la povertà si palesa, nei suoi vari gradi, come un intreccio di povertà di beni materiali e immateriali, di competenze e di capacità che strutturano situazioni di fragilità personali multidimensionali e complesse le quali conducono alla deprivazione ed all’esclusione sociale.

Queste caratteristiche di deprivazione sono rinvenibili in massimo grado nel gruppo dei “senza dimora”, perché dove è presente un disagio abitativo si riscontra frequentemente la presenza di molti, se non di tutti, gli indicatori di disagio che contraddistinguono le diverse definizioni di povertà estrema. “Una persona è considerata senza dimora quando versa in uno stato di povertà materiale e immateriale che è connotata dal forte disagio abitativo, cioè dall’impossibilità e/o incapacità di provvedere autonomamente al reperimento e al mantenimento di un’abitazione in senso proprio, o comunque di un luogo stabile, personale, riservato ed intimo, nel quale la persona possa esprimere liberamente il proprio sé fisico ed esistenziale”.

Inoltre, spesso, alla mancanza di una dimora stabile si accompagna l’assenza di una residenza, prerequisito per poter accedere ai servizi e alle prestazioni socio-sanitarie garantite a tutti i cittadini.

Le persone senza dimora possono quindi essere considerate la ‘punta di un iceberg’ del disagio sociale conclamato riscontrabile nella classificazione ETHOS (“Tipologia europea sulla condizione di senza dimora e sull’esclusione abitativa“), sviluppata recentemente dalla Federazione Europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora (FEANTSA) e che rappresenta, al momento attuale, il punto di riferimento maggiormente condiviso a livello internazionale. Tale classificazione si basa sull’elemento oggettivo della disponibilità o meno di un alloggio e del tipo di alloggio di cui si dispone[2], partendo dall’assunto che “l’abitare è una condizione imprescindibile per l’inclusione sociale”.

Ed è su questa condizione che tale ricerca-intervento vuole intervenire.

Entità del fenomeno e caratteristiche delle persone senza dimora (PDS)

Nel 2011 è stata realizzata la prima indagine nazionale sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema, a seguito di una convenzione tra ISTAT, Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Federazione Italiana degli organismi per le persone senza dimora (Fio.PSD) e Caritas Italiana. Tale rilevazione è stata ripetuta nel 2014 e ha stimato in quasi 51 mila[3] le PSD che, nei mesi di novembre e dicembre 2014 hanno utilizzato almeno un servizio mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine. Si tratta del 2.43 per mille della popolazione regolarmente iscritta presso i Comuni considerati dall’indagine, in aumento rispetto a tre anni prima (2.31 per mille), quando ammontava a poco meno di 48 mila unità.

Il profilo è quello di una persona che vive al Nord (56%, ma soprattutto nel Nord-Ovest), di genere maschile (85,7%), straniero (58,2%), con meno di 54 anni (75,8%) e con un basso titolo di studio (solo un terzo ha completato la scuola media superiore). Cresce rispetto al 2011 la quota di chi vive solo, mentre in maggioranza dichiarano di non essersi mai sposati (51%). Infine è in aumento la quota di coloro che sono senza dimora da più di 2 anni: ammontano al 62,5% degli intervistati. L’indagine ISTAT ci dice che nei tre anni delle due rilevazioni i servizi di mensa e di accoglienza sono diminuiti del 4,2%, anche se le prestazioni (pranzi, cene, posti letto) erogate mensilmente sono aumentate.

Nel triennio 2011-2014 l’Istat rileva un maggior ricorso delle PSD a unità di strada, ai centri di ascolto o strutture simili, ai servizi di distribuzione medicinali, ed anche ai servizi sociali, mentre si riduce il turn over tra gli utenti dell’accoglienza notturna e diminuiscono coloro che sono costretti a dormire in “luoghi” di fortuna.

I dati 2017 dell’osservatorio Caritas[4] costituito dai Centri di Ascolto diffusi capillarmente riflette in gran parte il profilo umano prevalente della PSD emerso dalla rilevazione Istat: presente al Nord (64%), straniero (67%), di genere maschile (70%), giovane-adulto (42 anni in media), più che in passato – la componente giovanile (18-34 anni) costituisce il 33% – largamente disoccupato (80%), poco istruito e con qualche riferimento affettivo, per quanto siano “deboli i legami relazionali” che le PSD hanno con parenti o amici. Spesso la separazione dal coniuge e/o dai figli, insieme alla perdita del lavoro, si confermano gli eventi più rilevanti del percorso di progressiva emarginazione che conduce alla condizione di “senza dimora”. La Caritas aggiunge qualche dato su bisogni, richieste e risposte ottenute delle PSD. Rispetto alla complessità dei loro bisogni – fondamentali sono il lavoro che se c’è è precario e saltuario o fornisce un reddito insufficiente, e l’alloggio, inadeguato, insicuro, transitorio – la Caritas può mettere in campo interventi parziali che non possono soddisfare che in minima parte le richieste esplicitate. I beneficiari ricevono nella stragrande maggioranza beni materiali e servizi (mensa, igiene e buoni viaggio), mentre piccole minoranze di SD ottengono azioni di supporto al disagio abitativo, qualche aiuto per questioni legate alla sanità e ancora meno servizi di orientamento per pratiche burocratiche necessarie all’accesso a servizi più strutturati. E’ evidente che il contributo fornito dalle Caritas non può essere che quello dell’intervento di emergenza o di pronta risposta per “tamponare” bisogni ormai cronicizzati (un terzo dei beneficiari vi si rivolge da più di tre anni) laddove non vi sono programmi più ambiziosi e realizzati in rete con le istituzioni e le altre risorse organizzate dei welfare locali.

Ad ostacolare spesso il rapporto con chi interviene per aiutare le persone in stato di povertà estrema concorrono le inerzie, le resistenze, le paure e le diffidenze, indotte dall’umiliazione e dalle frustrazioni vissute, dai fallimenti già sofferti da queste persone e che determinano la fiducia nelle proprie possibilità[5].

Tale considerazione chiede al ricercatore, che si approccia al fenomeno, di porre attenzione anche alle dimensioni esistenziali e psicologiche della povertà ricostruendo storie e traiettorie dentro e attraverso di essa e di “dare voce” ai più poveri per renderli testimoni del proprio vissuto, facendo di tale riconoscimento di soggettività la chiave di lettura del problema[6], valorizzando così i loro “saperi”[7] per renderli protagonisti delle strategie di intervento contro la povertà.

 

[1] Principi guida adottati dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU il 27 settembre 2012.

[2] Ethos Individua quattro situazioni di disagio abitativo, raggruppate per intensità: senza tetto, senza casa, sistemazione insicura, sistemazione inadeguata.

[3] Sono esclusi da questa cifra i minori, le popolazioni Rom e tutte le persone che, pur non avendo una dimora, sono ospiti, in forma più o meno temporanea, presso alloggi privati (di amici, parenti o simili).

[4] Cfr. (a cura di) Avonto C., Consoli M.T., Cortese C., La grave emarginazione adulta, in Caritas Italiana, Povertà in attesa. Rapporto 2018 su povertà e politiche di contrasto in Italia, Maggioli Editorie, Santarcangelo di Romagna (RN), 2018.

[5] Cfr., Ranci Ortigosa E., Contro la povertà, Francesco Brioschi Editore, Milano, 2018, pag. 19.

[6] Cfr., di Morlicchio E., Morniroli A., Poveri a chi? Edizioni Gruppo Abele, 2013.

[7] Cfr., Per un nuovo sapere sulla povertà, ricerca-riflessione di un gruppo di lavoro impegnato nei laboratori di Alta Qualificazione sulla povertà composto da ricercatori, persone in condizione di povertà e operatori per conto della Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro e del LABOS, Laboratorio per le politiche sociali, 2010, che hanno pubblicato una sintesi del percorso laboratoriale finanziato dalla Commissione Europea e del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali nell’Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale.

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