POLITICHE CONTRO LA POVERTA’ di Renato Frisanco

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POLITICHE CONTRO LA POVERTA’ di Renato Frisanco

Premessa

La povertà in Italia è ormai un fenomeno sociale endemico aggravato da una lunga crisi economica e dalla recente pandemia che ha sconvolto un sistema produttivo già in crisi esacerbando ulteriormente le disuguaglianze. D’altra parte un Welfare lungamente indebolito fa fatica a mettere in atto politiche urgenti e capaci di aggredire la complessa sfaccettatura del fenomeno nonostante l’immissione di nuove risorse, nazionali ed europee, per fronteggiarlo. Occorre l’apporto di tutti, in rete, dentro la visione di un welfare community capace di rispondere a bisogni, previamente e approfonditamente analizzati, con investimenti su formazione, nuove strutture e servizi e con interventi personalizzati nei confronti di singoli e famiglie in modo da rompere la catena generazionale della povertà. Si tratta di fare tesoro di tutte le esperienze di successo (le cosiddette “buone pratiche”) e di chiamare gli stessi indigenti ad essere parte attiva e propositiva degli interventi.

Le politiche contro la povertà in Italia

La prima commissione di indagine sui temi della povertà risale al 1984 (“Commissione Gorrieri”) fino all’approccio innovativo e riformatore espresso dalla Commissione Onofri (1987) che invocava un “minimo vitale”, mentre la sperimentazione di una misura universalistica e standardizzata di ‘Reddito minimo di inserimento’ (Rmi) è del 1999-2002 (limitata prima a 39 e poi a 267 comuni) che la legge quadro 328/2000 con gli artt. 23 e 24 intendeva generalizzare a tutto il territorio nazionale, sulla base degli esiti dell’attività di valutazione. La fine precoce della legislatura non ha permesso di pervenire a tale generalizzazione. Inoltre la modifica del titolo V della Costituzione del 2001 che attribuiva la materia assistenziale alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni – che ha messo in discussione la L. 328 – e il cambio di governo e di visione politica plasticamente rappresentata dal libro bianco del ministro Sacconi (“La vita buona nella società attiva” 2009), tendevano invece a ridimensionare l’impegno pubblico nel sociale[1] e piuttosto a delegare la materia al volontariato e alla beneficenza.

Nel 2012, in piena crisi economica, viene trasformata e moltiplicata la consistenza della ‘Social Card’ orientandola verso le famiglie di disoccupati e precari con minori e sotto i 3 mila euro ISEE. Nel 2013 nasce l’Alleanza contro la povertà, un’aggregazione di 35 organizzazioni che si propongono di contrastare la povertà presentandosi con una proposta di “reddito minimo”. Nel frattempo avanza anche la proposta ministeriale di istituzione del Sostegno all’inclusione attiva (SIA) e nel 2015 si conclude la sperimentazione della Social Card nelle città. Nello stesso anno con la legge di stabilità viene istituito dal governo Renzi il “Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale”.

Nel settembre 2016 diviene operativo il Sostegno all’inclusione attiva (l’impostazione è quella del reddito minimo di inserimento) esteso a tutto il territorio nazionale ma con un fondo di soli 750 milioni di euro, pur se in previsione dei fondi europei del PON Inclusione e del FEAD, Fondo europeo per gli indigenti[2]. Già nel primo piano della sua applicazione vi è stata una revisione della soglia di accesso al SIA eliminando o allargando vincoli che non permettevano a molte famiglie di accedervi (200 mila il primo anno rispetto alle 800 mila potenzialmente beneficiarie).

Anche grazie alla disponibilità dei fondi europei è stato possibile istituire nel settembre del 2017, il “Piano nazionale per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale” (art. 8, D.Leg.vo n. 147/2017) di cui si prevede una revisione triennale e, soprattutto, con lo stesso Decreto è stato istituito il REI, il ‘Reddito di inclusione’ grazie ad un accordo con l’Alleanza contro la povertà. Il REI subentra così al SIA e diventa una misura propriamente universalistica di contrasto della povertà (e esplicito a sostegno delle PSD), e quindi disponibile per tutti coloro che sono sotto certi livelli di reddito, senza alcun altro limite.

Dopo poco più di un anno di applicazione del Rei, nel marzo 2019 il governo “giallo-verde” con la legge n. 26 istituisce il ‘Reddito di Cittadinanza’ che mantiene l’idea di accompagnare l’integrazione monetaria del reddito con altre azioni di sostegno e promozione come formazione e occupazione. Come le precedenti misure dovrebbe poter incidere sulla disponibilità di una casa, sull’educazione e istruzione dei figli, sulla tutela della salute. E’ evidente in questo l’orientamento educativo e di responsabilizzazione “secondo una logica di attivazione e di autonomizzazione” dei beneficiari, pur se ha presentato da subito non pochi problemi di attuazione nel nostro Paese e questo richiede lo sviluppo complessivo di un sistema integrato di servizi sociali, e quindi la loro necessaria interconnessione, fattore che nel nostro Paese è ancora poco sviluppato.

Per avvalersi dei finanziamenti degli appositi Fondi europei e nazionali le Regioni e i Comuni devono attenersi ad apposite “Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia” predisposte dalla “Direzione Generale per l’inclusione e le politiche sociali” del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e approvate dalla Conferenza unificata Stato-Regione. Tali linee costituiscono il principale riferimento per la costruzione, implementazione ed attuazione a livello locale degli interventi di contrasto alla grave marginalità adulta e alla condizione di senza dimora. I due Fondi Europei messi a disposizione delle Regioni – “PON Inclusione”, che ha nei suoi principali assi la marginalità estrema nelle aree urbane – e “PO I FEAD” che finanzia invece interventi a bassa soglia (fornitura di prodotti alimentari e/o l’assistenza materiale di base) – ammontano a complessivi 50 milioni di euro.

Dal 2018 le Regioni possono anche attingere alle risorse del “Fondo Nazionale Povertà” che mette a disposizione 20 milioni di euro annui per interventi e servizi in favore di persone in condizione di povertà estrema e senza dimora. Il decreto di istituzione del Fondo stabilisce i criteri di riparto della quota, con particolare riguardo alla distribuzione territoriale dei senza dimora nelle grandi aree urbane in cui si concentra il fenomeno. Tutti i progetti regionali sostenuti dai diversi fondi passano al vaglio di un’apposita Commissione di Valutazione composta da referenti del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.

[1] Vedi, ad esempio, le modestissime misure una tantum come il bonus incapienti e la Social Card di 40 euro mensili per anziani e bambini indigenti del 2008. Negli anni della crisi economica i Fondi sociali nazionali, introdotti dalla L. 328 che trasferiscono finanziamenti nazionali a Regioni e Comuni vengono progressivamente falcidiati: si passa dai 1.774 milioni di euro del 2007 ai 43 milioni del 2012.

[2] La “Piattaforma europea contro la povertà e l’esclusione sociale: un quadro europeo per la coesione sociale e territoriale” (Comunicazione 16.12.2010) individua le PSD tra le principali popolazioni target della Strategia Europa 2020, con riferimento all’obiettivo di contrasto alla povertà. A questo scopo la Commissione Europea ha inoltre istituito il Fondo aiuti europei agli indigenti (regolamento UE n. 223/2014).

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