Islamofobia e razzismo. Media, discorsi pubblici e immaginario nella decostruzione dell’altro
A cura di Gabriele Proglio, prefazione di Federico Faloppa, Torino, Edizioni SEB 27, 2020, pagg. 206 (contiene 393 note o riferimenti bibliografici a piè di pagina, ma non vi è una bibliografia; vi sono, invece, le biografie delle autrici e degli autori e le tavole di Takouna Ben Mohamed).
Il volume si articola in otto saggi di altrettanti autori, dopo la prefazione di Federico Faloppa e l’introduzione del curatore Gabriele Proglio. L’islamofobia è un tema complesso ma che solo di recente è studiato e dibattuto nel nostro Paese tanto che riscontriamo questo termine nel dizionario solo nel 2008.
Federico Faloppa presenta il caso emblematico della cooperante Silvia Romano rientrata in Italia dopo 18 mesi di prigionia, convertita all’islam, perché fa ri-apparire lo spettro dell’hate speech, ovvero degli attacchi verbali scatenati da stereotipi con cui giustificare diffidenza e discriminazione. Un “odio esplicito”, funzionale anche ad una fetta del mercato dell’informazione, che riemerge periodicamente fino a palesarsi quasi come un diritto alla difesa rispetto alla paura dell’islam. Se non fosse, come dice il curatore, che l’islamofobia e razzismo vanno insieme come confermano i diversi saggi del testo. Razzismo che risale alla cultura imperialistica ottocentesca e che in Italia coinvolse anche Emilio Salgari ed Edmondo De Amicis che fecero loro le immagini sull’Islam e sui musulmani come alterità rispetto alla “civiltà europea”, frutto di visioni tramandate dalla letteratura di viaggio e dai resoconti degli esploratori. Tali scritture islamofobiche si alimentarono poi con l’espansione coloniale in Libia di inizio Novecento così che gli stereotipi attuali attingono a immagini-memoria che hanno persistito nel tempo (il velo della donna musulmana e la sua sottomissione, l’islam che è in sé retrogrado, statico, monolitico…) e sono state funzionali a un’operazione di egemonia culturale della società bianca e cristiana. Su questa si basa anche l’egemonia capitalistica dei paesi europei fin dalla fine del XV secolo che, con l’espansione coloniale, ha necessità di squalificare e inferiorizzare ciò che è “non Occidentale”, religione compresa. Per l’autore rendere giustizia alla storia significa ora condurre un’opera di decostruzione della discorsività sul razzismo. Seguono i sei saggi.
Alessandra Marchi spiega che il bisogno di creare un nemico che funga da capro espiatorio dei vari mali della società globalizzata induce ad attribuire un eccesso di “identitarietà” e alterità all’islam come religione e cultura che forgerebbero l’uomo e la donna musulmani. Questo dimostra “quanto siamo poco disponibili a comprendere noi stessi e le dinamiche con cui produciamo (o meno) sapere”. Da qui la necessità di “contribuire ad accrescere una corretta informazione e documentazione sui meccanismi che strutturano il nostro sapere e le nostre, presunte, identità”.
Marina Calculli analizza il rapporto tra islamofobia e insicurezza nell’opinione pubblica italiana e i suoi riflessi nelle politiche italiane nel Mediterraneo. Il tema dell’insicurezza e dell’instabilità della nazione è cavalcato dai partiti di destra ma hanno poi influenzato anche quelli di centrosinistra. La vera sicurezza che è in ballo, secondo l’autrice, è quella dei mercati e degli asset economici piuttosto che quella degli individui da tutelare senza distinzioni. Da qui le gerarchie razziali e culturali come quelle riflesse nella stigmatizzazione dei musulmani specie in Italia, paese che è al vertice in Europa per indice di avversione nei loro confronti. Il problema – legato all’aumento dei flussi migratori dal Sud al Nord del Mediterraneo – inspiegabile in rapporto alla popolazione musulmana in Italia (4,8%), è un riflesso del discorso sovranista delle destre il cui successo si nutre della “marcata falsa percezione della presenza di migranti sul suolo italiano”. Il “nemico” esterno, costruito per preservare la purezza culturale della “nazione”, più che il migrante in generale, è il nero e/o musulmano, capro espiatorio per eccezione e serve per portare avanti l’idea di un’Europa responsabile di scaricare sull’Italia l’onere della gestione delle migrazioni. Con gli effetti perversi della politica italiana a sostegno dei regimi autoritari dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Clara Capelli con il suo contributo affronta insieme “due questioni dirimenti”: il dibattito sulle pratiche discriminatorie islamofobiche e una riflessione che problematizza la collocazione lavorativa dei migranti. Il saggio offre una rassegna dei pochi e recenti studi condotti in Italia e in Europa sulle pratiche discriminatorie nel mondo del lavoro dettate da pregiudizi di marca islamofobica. E’ la questione delle discriminazioni economiche che penalizzano un candidato all’ingresso del mondo del lavoro. Ma il problema non è solo quello della discriminazione all’assunzione e sulla posizione lavorativa assunta (sotto-rappresentata nelle posizioni apicali) perché una serie di fattori di svantaggio impediscono a molti musulmani di arrivare alla fase di candidatura, come spiegano gli alti tassi di disoccupazione e di inattività. Soprattutto delle “donne con il velo”, proprio in quanto donne, minoranza e musulmane. E’ evidente poi come tali discriminazioni rappresentano un ostacolo al funzionamento pienamente efficiente del mercato del lavoro competitivo e quindi al miglior funzionamento del mondo produttivo. La discriminazione sarebbe così un fenomeno “istituzionale” che permette ai datori di lavoro un maggior controllo sulla forza lavoro, che si preferisce frammentata su linee di genere o etniche (segmentazione del mercato del lavoro). La semplice eliminazione di atteggiamenti discriminatori nei confronti dei musulmani nello specifico non è quindi sufficiente a rimuovere le barriere economiche che impediscono a molti di arrivare alla sede del colloquio di lavoro.
Il caso dell’Italia sulla base del “Nono Rapporto Annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia” mostra un profilo occupazionale della popolazione migrante, non solo musulmana, ancora molto concentrato su attività a bassa produttività, bassa remunerazione, basse possibilità di progressione.
Gina Annunziata cerca di decostruire l’alterità arabo-musulmana rappresentata nel cinema italiano. Con la sua affermazione, nei primi anni del Novecento, il cinema è stato un efficace strumento per veicolare all’opinione pubblica un apparato ideologico di sostegno all’azione coloniale (dal 2011 in Libia) che si reggeva sull’idea della “missione civilizzatrice del popolo italiano in aiuto a genti “primitive” e “arretrate””. Questa visione dell’”altro mondo” è ancora parte indelebile dell’immaginario italiano ed europeo e si è rafforzato con l’intensificarsi dei flussi migratori degli anni ’90 e con l’attacco alle torri gemelle di New York (11.9.2011). Prevale una reazione nazionalistica basata sull’incompatibilità culturale e sullo scontro di civiltà che alimenta il razzismo attuale. A ciò ha contribuito la posizione molto decisa in chiave anti Mondo islamico – quale “Male assoluto” – di scrittori come Oriana Fallaci. I media vi concorrono quando isolano un avvenimento specifico che ha come protagonisti negativi dei musulmani per poi sostenere che tale avvenimento è sintomatico del Mondo islamico. Negli anni 2000 diversi film riecheggiano posizioni islamofobiche nell’intento di inferiorizzare o confinare l’arabo/musulmano dentro un’immobilità identitaria, attraverso versioni stereotipate, aggiungendo così nuovi linguaggi e forme espressive di avversione.
Debora Del Pistoia si concentra su come il fenomeno islamofobia sviluppatosi in Europa abbia avuto e continui a generare riflessi anche nei Paesi a maggioranza musulmana. E’ il caso della Tunisia che la saggista esamina storicamente con una riflessione attorno alle polarizzazioni politiche tra islamismo e nazionalismo. In particolare dopo il 2001 le vittorie elettorali dei partiti islamisti hanno dato la stura a politiche controrivoluzionarie e autoritarie, sostenute sia dalle sinistre che dalle destre reazionarie, come barriera e salvezza di fronte al pericolo dell’islamizzazione della politica e della società.
Charles Burdett si è dedicato allo studio della rappresentazione dell’islam all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, che ha generato un “cambio di paradigma” con la disillusione rispetto alla possibilità di comprensione tra genti di diverse culture e diverse religioni. Dopo aver riproposto le parole di Tiziano Terzani che invitava ad una introspezione per “considerare fino a che punto vogliamo credere che siamo definiti dalla nostra – arbitraria – situazione culturale e geografica, e quanto vogliamo essere aperti alla dimensione transculturale dell’esperienza umana”, Burdett prende in considerazione voci autorevoli del giornalismo (in particolare Oriana Fallaci con la trilogia) ed esamina le strutture culturali delle loro rappresentazioni che dopo l’evento terroristico, generatore di paura – che se non controllata può essere fonte di comportamenti irrazionali ed erratici – instillarono nell’immaginario pubblico l’idea di un Islam nemico e in antitesi all’Occidente. Essi costruirono un’immagine del Mondo islamico come una totalità omogenea e statica – e “per sua natura espansionistico” – e quindi minaccioso per la base culturale e religiosa dell’Occidente. Voci come quella della Fallaci e di Magdi Allam sono accomunate anche per lo stile adottato e incisivo: uso della prima persona, esempi tratti dalla loro vita, la loro reazione proposta come modello di comportamento collettivo. Inoltre nei libri di questi autori vengono considerate “insite alla religione islamica” l’incitamento all’odio e l’istigazione alla violenza.
Sara Borillo mette in evidenza la semplificazione con cui viene affrontato in Italia il tema dei diritti delle donne musulmane, improntato per lo più da visioni orientaliste e colonialiste, da sguardi che variano tra il paternalista e il razzista o di matrice esplicitamente xenofoba. L’autrice affronta poi l’argomento delle donne musulmane attive dal punto di vista religioso, che è un fenomeno di “crescente visibilità”, della loro rivendicazione ad un maggior accesso al sapere e all’autorità religiosa, di spazi e ruoli espressivi per essere protagoniste (tema dell’empowerment femminile), anche in vista della riforma della società che tenga in considerazione il loro punto di vista.
Frase emblematica: “Il primo assunto erroneo è quello che concepisce l’islam come un unicum astorico e assoluto, laddove invece esso si caratterizza per una pluralità di principi, norme e prassi che emanano dal suo libro sacro e da leggi ed elaborazioni giurisprudenziali ispirate alla shar’ia [“la retta via, “la legge divina”, in arabo] che variano a seconda della scuola giuridica di riferimento, influenzando tendenze ideologiche e culturali, correnti di pensiero, pratiche culturali e spirituali che si ridefiniscono nel tempo a seconda dei contesti politici e sociali”.
In conclusione: “E’ di importanza fondamentale capire i sistemi secondo i quali riusciamo a costruire e a mantenere il nostro senso di identità e secondo i quali tendiamo a definire e interagire con altre comunità, altre culture e altre religioni”. R.F.
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