Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle

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Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle

Nina G. Jablonski, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, pagine 351 (contiene 239 note, suddivise per capitolo a fine testo, 406 riferimenti bibliografici, 37 illustrazioni, 4 mappe e l’indice dei nomi)

L’Autrice, docente di antropologia, dal 1991 studia l’evoluzione del colore della pelle di cui è oggi la fonte più autorevole. E’ un tema su cui prima di lei non vi era una grande comprensione perché considerato scomodo e tendenzialmente rimosso, pur se in grado di “influenzare le nostre relazioni e le nostre società in modi profondi e complessi”.

Il saggio è diviso in due parti, la prima sugli aspetti biologici della pelle e la seconda sulle implicazioni sociali del colore della pelle.

La pelle dell’uomo è dotata di un pigmento, la melanina, che si trova in misura maggiore o minore nella popolazione a seconda del grado di esposizione ai raggi ultravioletti (UV), avendo essa la capacità di assorbire le radiazioni solari più cariche di energia. La pelle ha anche la funzione di assimilare la vitamina D, essenziale per assorbire e utilizzare il calcio. E’ per questo che dove vi sono i livelli più bassi di raggi UV (es. Scandinavia) le persone con la carnagione bianca devono integrare la vitamina D con un’alimentazione ricca di tale proteina (pesce e mammiferi), mentre chi ha la pelle scura ha bisogno di una quantità molto superiore di raggi UV per produrre la stessa quantità di vitamina D della pelle.

Il saggio documenta quindi come il colore della pelle evolve nel tempo per adattarsi ad uno specifico ambiente. In origine la popolazione era generalmente di pelle scura perché concentrata in Africa, ma si è poi via via sparpagliata in aree climatiche diverse dell’Europa e dell’Asia per seguire le migrazioni stagionali delle mandrie da cui dipendeva. Una volta insediatisi in queste aree ci volevano tra i 10 e i 20 mila anni per raggiungere un livello di colorazione ottimale per un completo adattamento. Le popolazioni dovettero attivare cambiamenti nel corpo, nel comportamento e nella cultura (cibo, natura dei vestiti e ripari) per rispondere alle sfide poste dai nuovi ambienti. La perdita di pigmentazione è stato un adattamento essenziale per la vita nelle regioni settentrionali del mondo. Lo studio dimostra anche che la pigmentazione si evolve indipendentemente da altri tratti o caratteristiche come l’aspetto, il temperamento e il comportamento delle persone. Non determina una specifica specie umana e quindi una razza.

Quando nasce il concetto di razza intesa come entità biologica?

La seconda parte del testo entra nel merito della discriminazione legata al colore della pelle e ne ripercorre la storia. La discriminazione per il diverso colore della pelle e, quindi il concetto di razza sottostante, parte da pregiudizi che si formano perché questa e/o altre caratteristiche fisiche vengono associate con quelle culturali e comportamentali considerate immutabili e naturali. Il colore della pelle si connota di un chiaro significato di diversità quando il pregiudizio è veicolato da un’autorità di riferimento (genitore, insegnante, leader…). Ciò innesca per imitazione una risposta stereotipata anche da parte di chi non ha una esperienza visiva o diretta di una persona diversa e discriminata. Si forma così il costrutto mentale del concetto di razza.

Solo da 10 mila anni esistono contatti regolari tra popolazioni distanti ma nell’antichità sia in Egitto che nel mondo greco e romano, così come nella storia plurimillenaria dell’India, non vi era la tendenza a classificare le persone in base al colore della pelle, non comportava un giudizio di valore. La persona era giudicata con il metro della cittadinanza e solo l’impero musulmano del VII secolo deroga in questo senso con la pratica del commercio di schiavi nell’Africa subsahariana che gettò le fondamenta per la successiva tratta coloniale europea.

Negli ultimi 400 anni della storia umana si è verificato un cambiamento determinato dai viaggi a lunga distanza e dalle esplorazioni di naviganti e di mercanti alla scoperta di “nuove” terre che hanno messo in contatto popoli di pelle chiara (europei) con popoli di pelle scura o di diversa scala cromatica. E’ stata però fin da subito una relazione asimmetrica perché motivata da una spinta alla colonizzazione delle nuove terre da parte degli stati-nazione europei unita ad una rappresentazione degli autoctoni, soprattutto se africani dalla pelle scura, come “selvaggi” o “ramo depravato dell’umanità”. Anche a seguito della decimazione delle popolazioni autoctone delle colonie vi è stato un sistematico ricorso all’abbondante popolazione africana fatta schiava e condotta forzosamente come forza lavoro nei contesti agricoli del Nuovo mondo (Americhe) e dell’Australia, così come era avvenuto verso i paesi europei. Dal XVI al XIX secolo ha avuto luogo la “tratta degli schiavi” dalla pelle scura che ha garantito agli stati predatori un commercio molto redditizio e una crescita considerevole dell’economia delle colonie. Nel XIX secolo la schiavitù era un pilastro dell’economia americana. Per giustificare la tratta – vero e proprio “crimine di pace”, come si direbbe oggi – l’ideologia colonialista e predatoria ha rappresentato i deportati di pelle scura come esseri sub-umani, scimmieschi e li ha fatti oggetto di stereotipi negativi formatisi per altro ben presto sulla base dei resoconti di una letteratura di viaggi ossessionata dalle differenze di carnagione con descrizioni sensazionali e fuorvianti e che rendevano il nero una sorta di feticcio. L’ideologia e il vocabolario del commercio di schiavi ritraevano una diversità innata, biologica e, paradossalmente, avallata in modo autorevole da filosofi e scienziati del tempo, come Kant e Voltaire, considerati padri del razzismo, mentre il primo a usare il termine razza fu Francois Bernier nel 1684. Essi hanno introdotto classificazioni gerarchiche (tassonomie) basate sulla polarità del colore della pelle, associando alla carnagione scura caratteristiche culturali, temperamentali e qualità morali negative quanto immutabili. Vi hanno concorso anche le religioni, prima quella islamica (VII secolo) e poi quelle cristiane – a partire dal XV secolo – che, in particolare hanno dato fondamento biblico allo sfruttamento dei neri, con la cosiddetta “maledizione di Cam”, che contribuì a sostenere una naturale predisposizione alla schiavitù di questo ramo dei discendenti di Noé. In altri termini, fornì “una giustificazione divina della schiavitù”. D’altra parte gli enormi profitti derivanti dalla tratta e dallo sfruttamento del lavoro degli schiavi incentivava la retorica sulla deumanizzazione degli africani con la pelle nera. L’associazione tra schiavitù e carnagione scura divenne potente e non fece che aumentare i pregiudizi contro gli africani. Con la tratta atlantica e l’associazione di bianco come “uomo” e nero con “animale” si creò uno dei più duraturi e pericolosi pregiudizi che il mondo abbia mai conosciuto.

Deboli sono state le voci dei primi scienziati (J. Mitchell e S. Smith) che alla fine del ‘700 incominciarono a capire l’importanza dei climi, delle latitudini e degli stili di vita nel determinare i diversi colori della pelle e che misero in evidenza che le condizioni ambientali mutavano in relazione alla pigmentazione con le relative varianti.

L’autrice passa in rassegna a fenomeni di razzismo che si sono verificati negli ultimi 150 anni anche in Brasile, India, Giappone e Sudafrica, con storie e ragioni diverse. L’esperienza più eclatante è stata quella del Sudafrica dove l’apartheid dei neri è durato fino alla fine del secolo scorso e qui la dottrina della superiorità della razza bianca era connessa ai grandi interessi economici che si contendevano le popolazioni di origine europea. Questo rende bene l’idea di come la dottrina della razza giustifichi la sostenibilità di potenti fattori di disuguaglianza “in una società in cui l’accesso ai beni, la qualità dell’istruzione, i lavori di alto profilo, le abitazioni di prestigio e una buona assistenza sanitaria è stratificato in base alla razza”. L’affermazione di un tipo di discriminazione razziale prepara il terreno ad altre discriminazioni come quella basata sulla religione ebraica che nel XX secolo ha determinato lo sterminio di alcuni milioni di persone.

Frase emblematica: “Il colore della pelle era la caratteristica essenziale che dava ad una razza la sua valenza sociale e stabiliva il suo posto nella gerarchia esplicita. Alcuni tratti considerati decisivi erano la fisionomia, il temperamento e la cultura. Fin dall’inizio, non ci fu niente di oggettivo o scientifico nella definizione di razza”.

In conclusione. “Perpetuare la falsa idea che le razze rappresentino entità biologiche reali favorisce la nozione per cui le ingiustizie razziali sono accettabili e riduce l’interesse a interagire con quelli esterni al proprio gruppo”.

[1] Titolo originale: Living Color. The Biological and Social Meaning of Skin Color. (Published by arrangement with University of California Press, 2014).

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