Il razzismo
di Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli, Fondamenti Ediesse s.r.l., Roma, 2012, pagine 217 (Glossario finale del lessico razzista; selezione bibliografica di 14 testi di approfondimento, bibliografia e sitografia critico-tematica – 86 testi e 6 siti)
Il testo è un utile introduzione alla storia del razzismo che si presenta come un’ideologia persistente nella storia al fine di giustificare conflitti interetnici e, in ultima analisi, per avvalorare il predominio di una “razza superiore” sulle altre. Il razzismo emerge come il prodotto di strategie di costruzione del nemico e di criminalizzazione del diverso e può innescare una pericolosa escalation come la storia anche recente insegna.
Questo fenomeno assume particolare rilevanza dopo la metà dell’800 con il sostegno delle tesi pseudoscientifiche degli studi di antropologia e di biologia genetica secondo cui l’umanità si dividerebbe in gruppi stabili di individui, le razze appunto, connotati da caratteristiche biologiche ben distinte e tali da legittimare la pretesa di taluni di essi a considerarsi superiori agli altri gruppi e ad esercitare su di loro una qualche forma di dominio.
Pertanto il razzismo diviene una ideologia politica quando antichi pregiudizi sulle divisioni razziali, sempre esistenti, si trasformano in teorie “scientifiche”[1] che giustificano una serie di comportamenti di discriminazione e di persecuzione. Il razzismo viene così attuato su larga scala, a partire dal ‘600, con l’invasione europea nel Nuovo mondo e la tratta degli schiavi[2] e poi, tra l’800 e il ‘900, con il colonialismo e il nazionalismo imperialistico[3], fino al fatto più tragico ed emblematico della storia del razzismo[4]: il genocidio degli ebrei (Shoah) durante la seconda guerra mondiale.
Il razzismo è capace di innescare dinamiche totalizzanti (esemplare il caso del Terzo Reich), producendo letture integrate della realtà, generalizzando e ascrivendo a interi gruppi umani le differenze individuali, connotandole in negativo, e naturalizzandole in quanto caratteristiche stabili, trasmissibili e permanenti. In questa logica vengono individuati “nemici etnici” sul piano internazionale ma vi è anche una progressiva stigmatizzazione di “nemici interni”: ebrei, rom, devianti, omosessuali e marginali, donne, meridionali (in Italia), portatori di malattie ereditarie e di anomalie fisiche[5] tutti già vittime di persecuzione razzista nel corso del ‘900 e ancora oggetto di discriminazioni. Ad essi si aggiungono oggi gli immigrati forzati e i profughi che fuggono da guerre, violenze e fame. Rimangono un obiettivo privilegiato del risentimento e fungono da potenziale capro espiatorio soprattutto nel contesto della crisi economica che mina certezze, ingenera paure e trova cemento identitario nella destra xenofoba. Nel nuovo secolo cambia il movente della loro colpevolizzazione e dopo la giustificazione biologica, subentra quella culturale.
Nella nostra società permangono pertanto grossolane discriminazioni, più spesso sottili pratiche di esclusione, istituzionali, culturali, sociali, che confluiscono nella complessità del fenomeno del razzismo e nel suo spazio a più dimensioni. Per gli autori “potenzialmente ogni gruppo umano è suscettibile di essere descritto e discriminato in quanto razza“.
A determinare un clima favorevole alla discriminazione contribuisce l’informazione veicolata dai media (non solo la propaganda contro i “diversi” e i “marginali”) dando risonanza a stereotipi e pregiudizi che diventano senso comune.
Alla pervasività del discorso razzista corrisponde un incremento esponenziale di episodi di violenza con manifestazioni di disprezzo, rabbia e odio verso chi viene percepito come “altro”, coerenti con l’influenza della “grande narrazione” razzista, fondata sulla costruzione sociale dell’identità inferiore di diversi, di stranieri e di nemici.
Gli autori spiegano pertanto il meccanismo persecutorio del razzismo con la formulazione di una ipotesi teorica in grado di descrivere il dispositivo logico sotteso alle ideologie razziste operanti negli eventi narrati. Essi riscontrano che alla base dell’invenzione delle razze vi è l’istituzione di “nessi tra caratteri fisici e psichici reali o immaginari” stabili nel tempo (fissi, irriducibili e quindi naturali). Oggi nuove classificazioni delle differenze accentuano la sfera culturale rispetto a quella biologica (ad esempio, “etnia” sostituisce “razza”) e danno conto di emergenti processi di esclusione e “razzizzazione”, come nel caso emblematico di migranti che assommano più caratteri stigmatizzanti: l’essere fisicamente diversi, moralmente estranei e culturalmente stranieri.
Infine, nell’attualità il razzismo tende a mimetizzarsi, a vivere anche senza menzionare le razze, inventa identità inferiori suscettibili di discriminazione in un quadro più complesso e articolato, che comprende anche il “razzismo istituzionale”.
Frase emblematica: “La coscienza moderna poggia su di una contraddizione drammatica: si ispira a principi egualitari ma consuma la propria esperienza in mondi fondati sulla gerarchia e il dominio”.
In conclusione il razzismo “si afferma, come in passato, in virtù della sua efficacia sociale. Per questa ragione la confutazione teorica non è sufficiente a contrastarne la diffusione, ma deve essere affiancata da un concreto impegno sociale e politico”.
[1] Teorie portate avanti, tra gli altri, nel tempo da William Petty, William Lawrence, Cesare Lombroso e la sua scuola, Gustav Le Bon con la teoria delle razze umane fatta propria da Adolf Hitler.
[2] La tratta degli schiavi africani apparve già all’inizio del XVI secolo ed ebbe il suo massimo sviluppo tra il XVIII e il XIX secolo.
[3] Che inneggia all’Homo nationalis secondo la mistica dell’appartenenza basata su “sangue e suolo”.
[4] Occorre altresì considerare anche i due casi paradigmatici di società razziali segregative: gli Stati Uniti e lo Stato del Sudafrica. In particolare il caso Sudafrica è considerato paradigmatico dello sviluppo estremo del razzismo coloniale.
[5] Si pensi allo “sterminio eugenetico” negli anni ’30 del ‘900 in Germania.
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