Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia
di Achille Mbembe, Bari, Editori Laterza, 2019[1], pagine 171 (contiene 221 note, suddivise per i 4 capitoli, nessuna bibliografia a fine testo).
L’autore affronta con foga e disillusione il tema del razzismo in tutti i suoi lati oscuri, anche psicologici, quello di ieri – di stampo coloniale e funzionale al primo capitalismo di predazione – e quello di oggi, a vari livelli: il livello “nano” della cultura comune e quello istituzionale, freddo e burocratico con la sua gestione dei centri di raccolta e segregazione degli “stranieri”. Entrambi camuffati dentro una veste di rispettabilità democratica, quella delle nostre nazioni occidentali.
Mbembe si addentra nelle dinamiche che rendono l’identificazione dell’altro come nemico la modalità dominante di relazione nella società contemporanea, segnata dalla fantasia di separazione, perfino di sterminio, come lo è stato nelle politiche coloniali delle democrazie degli ultimi due secoli. Popoli interi dell’Occidente oppongono recinti per proteggersi da minacce e pericoli, che si possono leggere come esito sventurato, quasi una nemesi delle brutali conquiste, occupazioni e stermini perpetrati nei confronti di altre popolazioni che in passato sono state “prese nelle reti delle forze assai più devastanti della colonizzazione e dell’imperialismo”.
Aspetto fondamentale del nostro tempo è il tentativo dei paesi a invecchiamento accelerato di arginare le frontiere che costituiscono l’unica possibilità di sopravvivenza per i migranti provenienti dai paesi dal surplus demografico alla ricerca di una “cittadinanza” anche solo “in prestito” o precaria. Problema che all’interno delle frontiere viene affrontato in modo ambiguo, con strumenti che testimoniano una volontà di potenza, per metà crudeli e per metà virtuosi.
Le nostre società occidentali sono pervase da un veleno – “pharmakon” – che le trasforma da società democratiche e tolleranti in “società dell’inimicizia”, come era accaduto nel periodo della colonizzazione. Il rinnovato entusiasmo per “il suolo e il sangue”, i temi della lotta al terrore, la ricerca della sicurezza con la tentazione di instaurare uno “stato di eccezione” riguardano il mondo delle democrazie occidentali che perseguono la generalizzazione del timore e la democratizzazione della paura.
Per l’autore “la storia della democrazia moderna è una storia a due facce o addirittura a due corpi: il corpo solare da una parte e il corpo notturno dall’altra. L’impero coloniale e lo stato schiavista rappresentano il corpo notturno con gli emblemi della piantagione e del bagno penale”. Oggi sono società che coltivano l’inimicizia, la separatezza e dove il razzismo è “fatto di cultura e respiro”.
Achille Mbembé, in un capitolo del suo saggio riprende l’analisi di Franz Fanon che ha studiato i fenomeni della spersonalizzazione delle popolazioni colonizzate avendone evidenza diretta come psichiatra sui fronti di Algeria e Tunisia. Questi furono teatro di guerre di sfruttamento e di predazione e per molti aspetti di sterminio dando sfogo tra i colonizzatori ai desideri più repressi liberando, con “la potenza di essere al mondo”, passioni funeste e lasciandosi sopraffare dall’indifferenza rispetto al dolore indicibile provocato. L’autore rileggendo Fanon entra nel campo della psicologia della violenza efferata e delle dinamiche che la sostengono e la giustificano. Analizza i meccanismi di funzionamento del razzismo dentro la guerra coloniale e i suoi esiti, la natura delle ferite provocate e le forme di sofferenza indotte. E quindi le dinamiche psicologiche dei colonizzatori, “vicine alla psicosi”, e le perversioni che scatenano le atrocità compiute con indifferenza e sadismo e rigettando la responsabilità sulle vittime. Di quella brutale violenza anche tra i vincitori vi furono coloro che pagarono uno scotto per un effetto di ritorno del dolore provocato, soprattutto in termini di patologie mentali, a dimostrazione di una fragilità umana condivisa con le loro vittime. Questo avviene quando prevale la logica distruttiva della guerra (“sporca”, senza regole, fatta di genocidi e di violenza ordinaria) e della sopraffazione ammantata da miti di comodo razziali. Alla colonia come maschera della democrazia Fanon contrapponeva la teoria della “decolonizzazione radicale” per ristabilire un “principio di vita” rispetto alla violenza distruttiva.
Oggi l’opposizione all’altro, al negro, allo straniero, all’ebreo, al musulmano… mette in discussione la proiezione all’uguaglianza universale “che non molto tempo fa poteva permettere di contestare le ingiustizie sostanziali”. Si va verso una deriva che mira alla costituzione di un mondo che prescinde dalla relazione ed erige muri, costruisce recinti, usa il filo spinato e crea campi di raccolta con le porte chiuse, come si vorrebbe fossero porti e frontiere. “E’ come se avessimo finito per sempre con un certo ordine di cose, con un sistema di vita, un certo immaginario della condivisione della città futura”.
Al posto delle forme di aggregazione e di lotta per le appartenenze di classe subentrano oggi nuove forme di aggregazione organizzate in funzione dei legami di parentela e quindi di sangue. Ciò esacerba i sentimenti razzisti con una “guerra civile muta” o molecolare. Da qui il titolo del libro che richiama il “nanorazzismo” che è “la forma narcotica del pregiudizio di colore che si esprime nei gesti in apparenza neutri di ogni giorno”, fatti di battute, lapsus, barzellette, sottintesi, insinuazioni quando non vi è, invece, una cattiveria voluta o una voglia di stigmatizzare. Ed è un razzismo comune che si sposa con il volto notturno della democrazia: il razzismo “idraulico dei dispositivi giuridico-burocratici e istituzionali” e del sistema dei centri di raccolta, identificazione e controllo di migranti e rifugiati che richiamano i campi di concentramento, versione attuale di quelli che hanno caratterizzato con forme diverse e tragiche la storia coloniale e post-coloniale del pianeta.
Frase emblematica: “Quasi dappertutto il campo tradizionale degli antagonismi si è scompaginato. Alla vecchia distinzione amico-nemico se ne sovrappone ora un’altra, tra parenti e non parenti, cioè tra quelli e quelle che sono legati dallo stesso sangue o dalla stessa “stirpe” e coloro che si ritiene discendano da un altro sangue, da un’altra cultura, da un’altra religione. Venuti da altrove, in fondo costoro non andrebbero considerati nostri concittadini (….) dovrebbero invece essere respinti, rimessi al loro posto o semplicemente ricondotti fuori delle nostre frontiere, nel quadro del nuovo stato di sicurezza che a questo punto segna le nostre esistenze”.
In conclusione: “Le democrazie, come un tempo avevano bisogno della divisione dell’umanità tra padroni e schiavi, oggi dipendono per la loro sopravvivenza dalla separazione tra la cerchia dei simili e quella dei dissimili o anche tra gli amici e “alleati” della civiltà e i suoi nemici. Poco importa se questi nemici esistano davvero o no: basta crearli, trovarli, smascherarli e metterli in evidenza”.
[1] Titolo dell’edizione originale, Politique de l’inimitié, Paris, Editions La Dècouverte, 2016.
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