La rabbia e l’imbroglio. La costruzione sociale dell’immigrazione
di Fabrizio Battistelli, Mimesis Edizioni Srl, Milano-Udine, 2019, pagine 142 (bibliografia di 133 testi)
Il libro fa da contraltare a: “La rabbia e l’orgoglio” di Oriana Fallaci che nel 2001, dopo gli attentati terroristici in USA, giustifica diffidenza e ostilità verso le differenze etniche e religiose, così evocando il testo di Samuel Huntington su “Lo scontro tra civiltà”.
Battistelli analizza le ragioni e i processi sociali che sostengono l’immagine prevalente dell’immigrazione vista come “minaccia” attribuita ad un “nemico” esterno piuttosto che rappresentata come un “rischio” consapevole che richiede decisioni “riflessive” e reattive al fenomeno sapendo che le differenze contengono in sé rilevanti opportunità. L’immigrazione invece di essere affrontata in termini razionali, cioè valutando costi e benefici, viene sistematicamente affrontata in termini emotivi inoculando sentimenti di insicurezza e di paura che suscitano “rabbia”. L’”imbroglio” sta nella strumentalizzazione politica di tali sentimenti.
Nei cinque capitoli del testo l’autore analizza anzitutto il “rischio immigrazione”, fenomeno oggi strutturale, di lunga durata e generato da conflitti, cambiamenti climatici e sottosviluppo economico. La natura dei contesti da cui gli migranti provengono rende per altro assai arduo distinguere tra migranti economici e richiedenti asilo. Il numero di chi si presenta come rifugiato e richiedente asilo è in forte aumento in quanto è l’unico mezzo per ottenere un sia pur temporaneo permesso di soggiorno nel nostro Paese. La condizione di “clandestino” è ormai trasversale dopo l’abolizione di fatto degli ingressi legali in tutta Europa.
A fronte di questo fenomeno l’azione europea di governo è “debole e contradditoria” e palesi sono le controversie tra i Paesi dell’UE, in non pochi casi contrari ad una redistribuzione dei richiedenti asilo che approdano soprattutto in Italia. D’altra parte il nostro Paese è privo di una politica dell’immigrazione – “affrontata con modalità improvvisate e adattive” – e diviso al suo interno tra chi tende ad attuare la “strategia dell’elusione” (le forze di sinistra) e chi, invece, quella dell’”allarme” (le destre) rispetto ad un pericolo palesato come reale minaccia e destabilizzante per i costi sociali ed economici fino a emanare i “Decreti sicurezza” (governo “giallo-verde”). L’interesse a trasformare i rischi in minaccia e quindi ad alimentare la strategia dell’allarme si basa su un sistema di pensiero che considera i nativi del territorio nazionale un’entità distinta e “al di sopra degli altri gruppi che traggono le loro radici altrove”. L’ideologia del “nativismo” ha come slogan: “padroni a casa nostra”, “prima gli italiani”, “no alla sostituzione etnica”.
Posizione definita dall’autore “ipocrita” perché ignora che vi sono stati 26 milioni di italiani emigrati nei primi 100 anni della storia unitaria. Tale impostazione è inoltre frutto di disinformazione e preclude qualunque valutazione razionale di un fenomeno i cui benefici a livello macro sono invece indiscutibili in termini demografici (gli immigrati sono più giovani e prolifici), economici (nel 2017 il loro lavoro incide sull’8,8% del PIL) e previdenziali (i contributi che versano costituiscono una significativa fonte di finanziamento per l’intero sistema previdenziale).
Con il terzo e quarto capitolo Battistelli mette in evidenza il processo di “costruzione sociale” dell’immigrazione di cui sono protagonisti – in alto – gli attori politici e quelli mediatici e – in basso – la “gente”, soprattutto i gruppi di cittadini delle aree più degradate delle città metropolitane dove si concentrano anche le strutture per l’accoglienza dei rifugiati.
La strategia dell’allarme riflessa dai media rispetto al fenomeno nel nostro Paese si può condensare in due fasi temporali: nella prima (dal 1980 al 2001) lo straniero è visto con preoccupazione in quanto concorrente dell’autoctono sul mercato del lavoro, mentre nel nuovo secolo è visto, in specie se musulmano, come pericolo terroristico, come minaccia alla sicurezza. Così i mass media sono passati da una tendenza all’empatia, nella prima fase, ad una propensione alla drammatizzazione del fenomeno in una spirale di escalation ansiogena suscitata da singoli eventi di cronaca nera che si distaccano dalla routine creando sorpresa, emozione e preoccupazione se non paura. Ma anche sottolineando i costi, ignorando i benefici del fenomeno e fornendo un’informazione scarsamente documentata e puntuale (dati) sullo stesso.
Per leggere invece i meccanismi discriminatori dal basso l’autore si rifà agli studi della sociologia americana, in particolare alla teoria del “posizionamento di gruppo” di Herbert Blumer degli anni ’50. La sola prospettiva individuale e psicologica non permette di spiegare il pregiudizio razziale che è frutto di un “processo collettivo in cui si forma l’immagine del proprio gruppo come dominante secondo quattro sentimenti prevalenti”: senso di superiorità, convinzione dell’intrinseca diversità del gruppo etnico subordinato, pretesa di avere diritti esclusivi o prioritari in molte e importanti aree della vita sociale; sospetto che il gruppo subordinato coltivi un disegno ostile contro le prerogative del gruppo dominante. Quest’ultimo sentimento è decisivo perché si formi il pregiudizio collettivo che influenza e modella lo stesso individuo. Ruolo decisivo nell’alimentare tale processo spetta al leader o portavoce del gruppo dominante che cercherà di ridurre l’intero fenomeno a minaccia, additerà lo straniero come nemico e proporrà politiche pubbliche orientate alla securitarizzazione del sistema sociale cercando di privilegiare un audience di cittadini inaspriti dal disagio socio-economico. E’ evidente che il conflitto con gli immigrati è maggiore nel contesto delle periferie degradate delle grandi città dove vi è coesistenza, spesso competitiva e antagonistica, tra chi non ha ancora ottenuto la cittadinanza (i profughi, ovvero “gli ultimi”) e uno strato ancora più vasto la cui cittadinanza è solo nominale (“i penultimi”), scatenando la cosiddetta “guerra tra i poveri”.
Non a caso il quinto capitolo presenta uno “studio di caso” che fa riferimento al quartiere periferico e degradato di Roma (Tor Sapienza), teatro nel 2014 di un conflitto tra gli autoctoni e i migranti presenti in una struttura di accoglienza (SPRAR[1] con 70 rifugiati di cui 40 minori). La sommossa violenta degli abitanti del quartiere ha poi determinato lo spostamento della struttura di accoglienza ad altro quartiere. I residenti coinvolti in una ricerca-intervento, che si è avvalsa di una tecnica di rilevazione partecipativa (“Giuria dei cittadini”), hanno messo in evidenza come i punti più critici nella relazione con gli immigrati siano: “la concorrenza sul lavoro e, soprattutto, l’accesso all’assistenza e ai servizi pubblici [percepito come] sproporzionatamente favorevole agli immigrati rispetto agli italiani”. Da qui il loro bisogno di “risarcimento per un sentimento di privazione relativa” che li fa sentire “trascurati dallo Stato e dagli altri poteri pubblici i quali, invece, vizierebbero gli oziosi e immeritevoli stranieri”. Al termine della ricerca vengono rilevate le proposte degli autoctoni alle istituzioni per favorire una pacifica coesistenza con gli stranieri; esse vanno nella direzione di rivendicare il loro “diritto a essere riconosciuti” e quindi sostenuti e di ricevere qualcosa dagli stessi immigrati.
Frase emblematica: “E’ un fenomeno irrazionale, ma ricorrente nella psicologia dei gruppi piccoli e grandi che, di fronte ad una situazione di grave disagio come quella presentata in Italia a partire dalla crisi economica del 2008, la risposta consista nell’individuazione di un capro espiatorio, preferibilmente caratterizzato da differenze, su cui canalizzare le colpe”.
In conclusione. “Nel mondo globalizzato, sede di un costante cortocircuito tra le aree economiche e sociali del pianeta poste a brusco contatto l’una con l’altra, le spinte irrazionali già espresse da nazionalismo e razzismo riaffiorano, pur denudate degli orpelli ideologici del passato, sotto le “nuove” forme del nativismo”.
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